2024 – Siro Perin: “Esodi”, una storia di speranza e della necessità di resistere; questa l’umanità in cammino di Magnolato.
“…Prima di iniziare, voglio ringraziare sentitamente i figli di Cesco Magnolato che hanno permesso la realizzazione di questa mostra, gli allestitori, nelle figure di Luigi Faraon e Albino Marinello perché non è sempre facile organizzare una mostra di questo tipo. Anzi!
Allora che dire di questo maestro? Molti piani vorrei raccontare, piani amicali, aneddoti e piani artistici. Inizierò con un aneddoto. Molti anni fa ci troviamo al De André [Centro Culturale a Marcon (VE)] per la mostra di un grande incisore, Pio Penzo, e chi c’è? Cesco Magnolato assieme ad un’altra robusta figura, in senso artistico, Claudio Benito Tiozzo! Io sono attratto da queste persone, mi avvicino e le sento parlare, pescano ricordi che hanno a che fare con i grandi maestri, con la stagione artistica veneziana. Per me questo dialogo è un pozzo senza fondo, si parla di tutto.
Le cose poi vanno avanti, ci rincontriamo. Lui (Cesco) mi fa conoscere un altro grande maestro, oggi da poco scomparso, che ha esposto qui: Renato Varese. E allora iniziano le spole. Io, Magnolato e Luigi Faraon andiamo a trovare ripetutamente Varese. E lì ancora storia, storia dell’arte, pittura, incisione. E apprendo e sedimento altre informazioni, non sempre disponibili sui libri, ma che sono alla base della loro arte. E ricordo un altro aneddoto: andiamo a vedere una mostra di un incisore. Partiamo da San Donà, ci dirigiamo a Porto Buffolè e chiacchieriamo durante il tragitto. Sempre di arte! Arriviamo a vedere l’esposizione. Il maestro si gira e mi fa: “Vedi Siro, siamo due incisori, solamente che io sono un pochino più vecchio di lui. Io mi chiamo Cesco e lui si chiama Livio Ceschin”. Era molto ironico! E tra questi ricordi, tra questi aneddoti, mi viene alla mente anche quando io e Luigi Faraon andavamo nel suo studio: partivamo alle 14:00 con l’intento di stare là mezz’oretta, ma poi rimanevamo tre ore! E lui ci mostrava fotografie dicendoci: “Vedi in questa fotografia? C’è questo maestro, quest’altro maestro, c’è la scuola di Murano…” e via discorrendo.
Come ho detto prima, storia dell’arte e aneddoti fanno parte di quel humus che costituisce la vita di questi interessanti e giocosi artisti; alcuni sono anche bizzarri e perciò così come mi sono stati riferiti da Cesco li tengo come prezioso ricordo. Ma tra queste memorie ce n’è una che mi ha colpito molto e che il maestro mi ripeteva frequentemente. E’ la visione, la presenza ad un fatto crudele avvenuto nell’agosto del 1944 presso Riva dei Sette Martiri [Venezia]. Cesco Magnolato ha assistito a quel tragico momento quando i nazisti hanno fucilato delle persone, perché accusate di aver ucciso un soldato tedesco il quale, poi si è scoperto essere annegato perché era ubriaco. Quando si dice: l’ironia perversa della storia! E da questa manifestazione di ricordo viene fuori il concetto del dolore, della violenza, molto presenti in lui. E così, parlando delle sue opere, mi diceva: “Vedi, le mie opere sono in un certo modo dei racconti di vita”. E’ vero! Basta osservarle. Esse hanno infatti un inizio che sembra una sorta di tema, un’ introduzione, poi uno svolgimento ed una fine aperta che si conclude con un punto di domanda.
E’ in questa modalità di dipingere il dolore di Magnolato che si innesta il senso di ‘Komorebi’ [titolo del progetto espositivo proposto dall’Associazione IRIS nel 2024], parola giapponese che non esiste in italiano e che è traducibile così: luce in fondo al tunnel, che si intravedeva anche tra alberi di Tobia Ravà [artista che ha partecipato alla mostra precedente all’interno del progetto]. Ciò che si vede nelle opere di Magnolato è quindi un cammino, una storia, che è narrata attraverso una magistrale pittura, in cui l’aspetto tecnico non è assolutamente facile. Chiaro, questo è un maestro con la M maiuscola come ha ricordato con ragione, anche grazie al contributo ed alla testimonianza del Sig. Dal Maso, Paolo Frasson nel mensile “La Piazza” in cui egli cita Magnolato come un grande maestro. Ripeto, si tratta di un grande artista, non solamente per quanto riguarda il suo fare arte, ma anche perché era presente a tante mostre, lo trovavo sempre! Voleva essere vicino anche agli artisti e ai critici che erano in erba, e quando esordiva con una critica questa era costrutta e vera, non buttata là, talvolta velata di una strana ironia che bisognava anche capire. Era un personaggio molto particolare anche sotto questo profilo.
Ritornando al suo cammino, questo si lega appunto con Komorebi per la possibilità di andare oltre, di trovare una sorta di luce come si vede nelle opere, tutte impostate su questa modalità: hanno qualcosa dove tu inizi, ti muovi e ti aggetti verso il futuro. Ci sono poi le figure, singole o plurime, mai identificate, che imprimono all’opera un valore sia oggettivo, quindi comprendente l’umanità, sia soggettivo, rivolto alle singole persone che guardano i suoi dipinti. Tutti noi, sia nella nostra dimensione soggettiva che in quella oggettiva, siamo sempre in cammino e siamo sempre in cerca di qualcosa. A tal proposito, mi viene in mente il buon Palinuro che nel tentativo di desiderare le stelle, casca pure in acqua. Possiamo prendere le stelle? No, ma la parola desiderio ci induce proprio a cercare sempre di afferrarle. Quindi le stelle diventano dei sogni, diventano delle mete. E queste ultime fanno venire in mente l’esodo, parola il cui significato etimologico significa “fuori strada”, che sollecita l’immaginazione. Quando tu stai camminando e vai fuori strada perdendo “la diritta via che era smarrita”, sei tu stesso smarrito, non sai più chi sei e non sai più dove vai. Questi quadri dimostrano molto chiaramente che se troverai la forza per andare avanti, forse arriverai alla fine di questo viaggio. Chiaro! Questo percorso porta tribolazione, porta paura, porta fatica e dolore, ma alla fine si intravvede una via d’uscita.


Questi non sono lavori che in fin dei conti ti danno una visione serena quando li guardi, ma ti inducono a pensare, ti costringono a riflettere per trovare una luce in fondo al tunnel. Questo porta a pensare ad un rimando all’espressionismo. Sì è vero ma non perché Magnolato abbia avuto bisogno di copiarlo, in quanto questo tipo di pittura tocca le corde del cuore attraverso l’occhio, ma perché la manifestazione dell’io più profondo è generata sia dal colore sia, se si guardano bene alcuni quadri, anche da questa sorta di figure che si aggettano in avanti, tanto che a volte sembrano cadere, generando allo stesso tempo uno slancio vitale, cruento e tremendo così da evocare quello de “I Trasportatori di barche del Volga” di Repin. Importante quadro del realismo russo della seconda metà dell’Ottocento in cui si vedono figure stantie e scarnificate dal lavoro, quasi cascanti, che trainano le barche nel Volga, non un fiumiciattolo, e che alla fine, nonostante la tristezza e la sofferenza del lavoro, ci si immagina arrivino ad una meta.
Quindi ribadisco: Magnolato non ha bisogno di guardare all’espressionismo! Se ne serve dal punto di vista tecnico-pittorico quando è necessario evadere dal dipingere in maniera realistica. Ha creato infatti una sua personale pittura in cui emergono, basta guardare la cura di certi particolari, l’utilizzo di una sorta di diagonale, sempre presente, che si muove da destra a sinistra o viceversa, mai parallela ai bordi e sempre obliqua. E se andassimo a vedere la teoria della costruzione della geometria che costituisce l’impalcatura di questi quadri, capiremmo che neppure quella è per niente casuale, anzi!
Questo maestro, sia nella grafica sia nella pittura, ha descritto un’umanità corale che è fuori strada, non sa più che cosa vuole, non sa più chi sia e cammina…cammina… cammina con la forza dei piedi, delle gambe, si trascina con le braccia, con la forza del cuore e della disperazione senza mollare mai sino che giunge ad una meta. Ma c’è di più! Questa disperazione genera la voglia di arrivare alla fine, che deve essere intesa come un messaggio di speranza in cui tutto non è ineluttabile, non è la fine del mondo, perché c’è sempre una possibilità di andare oltre ed è espressa anche con una sottile ironia che è tipica di Magnolato. Non c’è una fine “finente” ma una volontà di farcela che, interpretando le parole di Frasson, nasconde una sorta di sensualità della vita. L’opera di questo maestro cela fondamentalmente un messaggio positivo e quindi dobbiamo vederlo sotto questo punto di vista perché sennò alla fine rimarremo preda del nostro dolore.
Ora voglio raccontarvi un altro aneddoto, stavolta pertinente a questa mostra; mi è capitato e lo trovo pure molto singolare. Ieri mattina, scorrendo alcune opere degli scrittori del passato, ho riletto “L’Ideale dell’Ostrica” di Verga – autore peraltro molto conosciuto ai tempi scolastici di Magnolato, oggi “risolto” in due o tre paginette, perché nella, diciamo così, temperie tecnologica contemporanea i Verga contano ben poco, come del resto i Manzoni e i Dante – e mi sono chiesto quale fosse il vero significato di questo concetto. Resisti, resisti, chiuditi ad ostrica, chiuditi… lascia che la buriana passi perché alla fine riuscirai a farcela! Queste sono le parole che mi sono balenate nella mente. E ho capito che proprio questa necessità del resistere è condivisa sia da Verga che da Magnolato e quindi risulta essere una costante presente in entrambi gli artisti.
Sempre ieri, nel pomeriggio, vengo qui per dare un’occhiata alla mostra, guardo uno ad uno i quadri ed inizio a riflettere su come da questi emerga proprio la capacità di resistere dell’uomo. Penso poi al titolo dell’esposizione, “Esodi”. Successivamente vado a vedere i libri disposti nel foyer e che cosa trovo? L’“Esilio” di Bettiza! Sì, proprio il libro che racconta l’esodo, quello istriano-dalmata che per me è un tema molto caro e di cui ho letto diversi testi tra cui proprio quello di Bettiza. In questo libro viene rappresentata l’umanità dell’uomo che si volta indietro e vede la terra natia per l’ultima volta; nel momento in cui si gira per guardare avanti sa che non tornerà mai più, è finita, si lascia tutto lì, come ci insegnano i magazzini di Trieste, e si perde ogni proprio avere.
Oltre alla resistenza, nelle opere di Magnolato è presente un’altra caratteristica: la speranza. Per esporla vi racconto quanto è accaduto ad un amico, pittore istriano oggi avanti nell’età. Egli, dopo aver visto la barbarie dell’esodo, che in questa sede non posso raccontare ma vi assicuro che si fa fatica a prendere sonno dopo aver sentito queste atrocità, quando è salito sulla nave che lo ha costretto a lasciare tutto e ad abbandonare la sponda dell’Adriatico dove c’era ancora il leone in moeca [scultura rotonda con effige del leone, simbolo della Repubblica di Venezia], prima che venisse deflagrato – peccato che là bisogna togliere tutto per cancellare l’anima dei Veneti, del istroveneti, dei veneziani e della Repubblica Serenissima – una volta arrivato a Venezia, ha pensato: “L’unica cosa che mi si apre è la speranza della porta di un orfanotrofio e sono costretto ad andare là perché i miei genitori non possono mantenermi…ma almeno mi sono salvato”. Bene, nella crudezza della storia che vi ho appena raccontato, questa speranza si intravvede perché questo signore ha avuto l’opportunità di crescere, di mettere su famiglia e riportare ancora questi valori e questo dolore che tocca la collettività. La tragedia dell’esodo generale di tutti gli istroveneti è la somma della tragedia di ogni persona ma anche della speranza di una vita migliore che tocca ognuno di noi, perché siamo tutti in cerca di salvezza e di speranza. Siamo tutti Palinuro che desideriamo la salvezza, ma siamo pure tutti Ulisse perché vogliamo sapere cosa c’è oltre. Ci sono sempre resistenza e desiderio che danno speranza alla vita.
Le opere di Magnolato credo vadano lette in questo modo. Le figure nere che compaiono spesso in primo piano nei suoi lavori, marcate da questi segni forti, altro non sono che immagini del dolore presente all’inizio dell’esodo. Ma guardandole, come ha fatto il pittore che dopo essersi voltato indietro e pur piangendo ha trovato la forza di andare avanti, dobbiamo trovare la volontà di partire. Se facciamo così, rendiamo omaggio alla storia che questo grande artista sandonatese racconta e che, alla fine dei conti, è una storia di speranza nonostante tutto. Se non c’è speranza si fa ben poco, se tutto è ineluttabile non si fa nulla!
Questa esposizione ci allontana dalla morte, ci permette di vagare verso l’infinito senza sapere dove andare ma di salvarci. Allora anche per gli ebrei l’esodo, che in questo caso vuol dire uscita e non più perdere la strada, permette loro di andare via. Abbandonano l’Egitto, permettetemi una battuta per edulcorare un pochino la cosa: fanno un po’ di vacanza nel deserto, qualche decennio, e alla fine arrivano alla terra promessa dove c’è latte e miele. Quindi in quest’opera [indicando un quadro alle spalle del presentatore] c’è questa sorta di latte e miele, questo momento di fine del viaggio, di fine di questo percorso che magari inizia nuovamente in un altra opera.
L’essere umano pensa, vive, nutre emozioni, sensazioni e quindi ogni qualvolta si trova di fronte a qualcosa di grande nella vita, passa sempre per tale percorso; è per questo che Magnolato aveva ragione nel dire che le sue erano le storie delle persone, dell’uomo e dell’umanità in generale e non possono essere lette che così: con l’inizio cruento e la fine, per chiudere in bellezza, addolcita…Come a dire: dopo la burrasca il ‘…naufragar, m’è dolce in questo mare’. ”


Trascrizione dell'introduzione critica alla mostra presso Centro De Andrè - Marcon, 14/12/2024