2011 – Lorena Gava scrive dell’incisore veneziano:
“Nel panorama dell’arte incisoria contemporanea Cesco Magnolato è universalmente riconosciuto come uno dei massimi maestri. Da oltre 50 anni le sue acqueforti, acquetinte, punte secche, maniere nere e a penna, vernici molli occupano cataloghi prestigiosi di mostre personali e collettive dedicate alle pratiche calcografiche.
Gli archivi storici delle più importanti Biblioteche e Fondazioni artistiche nazionali contemplano il nome di Cesco Magnolato, le tappe della sua straordinaria carriera e le moltissime preziose attestazioni di merito.
Una vita, è il caso di dirlo, ‘incisa’ nel grande libro dell’arte del Ventesimo e del Ventunesimo secolo, una vita che si racconta per immagini, per impressioni, per folgorazioni improvvise.
Le incisioni di Cesco Magnolato sono un’esaltazione fortissima della potenzialità del segno, del gesto della mano che con invidiabile sicurezza e illuminazione mentale agisce sulla superficie. Scava la lastra in solchi lineari di straordinaria precisione. La foga espressionista delle sue visioni e intuizioni immaginifiche si traduce in una ridda di tratti e segni che danno vita, sulla carta, a composizioni studiatissime, a giochi complessi di effetti chiaroscurali di prorompente vitalità.
La logica compositiva spesso risolta in un dinamismo di forze opposte, di diagonali vagamente futuriste, evidenzia il ductus emozionale del Maestro, la sua cifra stilistica perennemente tesa tra una regia vigile e attenta degli aspetti esecutivo-formali e una libertà espressivo-contenutistica che attinge ampiamente dalla copiosa materia autobiografica.
Tornano con ossessiva lucidità i temi dell’infanzia, dell’adolescenza, delle terre d’origine intorno al Basso Piave, le memorie partigiane (‘Partigiani del Piave’ del 1965), le fughe, i rastrellamenti, la miseria delle campagne prede e vittime dello spopolamento progressivo sul finire degli anni Cinquanta. Compare ‘Angelo’ l’operaio dalle mani grandi e callose che raccontava la Divina Commedia e insieme lavorava la terra, compaiono stanze chiuse da grate metalliche che agiscono come ghigliottine per quell’umanità contadina sconvolta prima dagli orrori della guerra e poi agitata dal vento della speranza a lungo invocata ed attesa di un miglioramento di vita, di una condizione post-bellica che si rivela invece un’autentica, sofferta, diaspora verso i nascenti centri urbani industrializzati.
La sostanza umana onnipresente, allucinata e ingigantita da ferite interiori, tumefazioni fedeli di una condizione oggettiva di povertà e degrado, è stigmatizzata nei perimetri duri e scarni dei volti che guardano altrove, nelle bocche spalancate, nelle cavità orbitali prive di luce.
Nell’opera magistrale ‘La strada’ del 1985, una folla indistinta avanza, si espande, tra il bianco delle architetture e il nero del cielo; il passo è veloce quasi una corsa dentro la via sghemba, rutilante di occhi, polvere e fango; qui l’assenza di colore agisce come agiscono i toni ocra del ‘Quarto stato’ di Pelizza da Volpedo e cioè rimarcando l’urto dilagante ma compatto di braccia e mani che conoscono solo il colore della terra e la realtà del duro lavoro quotidiano, delle pietre sollevate e delle zolle riarse dei campi.
Nelle incisioni, come nelle opere pittoriche, al tema della figura umana Cesco Magnolato accosta il mondo della natura con le stagioni, le piante e i frutti ed è incantevole il processo di trasmutazione delle parti, è sorprendente la maniera in cui assistiamo ad una sorta di mutazione, di ibridazione collettiva come se non ci fosse separazione tra i regni.
In ‘Primavera’ del 1981 come in ‘Inverno’ del 1983, i due volti maschili bloccati nelle potenti diagonali di luce e buio, sembrano sfaldarsi sotto un derma-girasole e una pelle di foglie accartocciate: l’unità della visione è compromessa da intersezioni mobili di superfici concave e convesse, simili a stratificazioni minerali, a contaminazioni virtuali in linea con tanta parte dell’arte contemporanea e nello stesso tempo, mi sia concesso questo confronto, con tanta pittura rinascimentale, dalle deformazioni fisionomiche di Leonardo, alle nature morte reversibili di Arcimboldo rivolte alla omogenia della parte e del tutto, alle corrispondenze tra macrocosmo e microcosmo.
In Cesco Magnolato il gusto della ricerca diventa, quasi per reazione a un sortilegio alchemico spesso presente nella pittura surrealista, la traccia di un’inquietudine profondamente sentita, di un’angoscia latente, di un malessere esistenziale che sgorga da paure antiche, da retaggi autobiografici dentro l’esperienza terrificante della guerra e della morte.
Parole come ‘Esodo’, ‘Attesa’, ‘Ricordo’, ‘Memorie’, così ricorrenti tra i titoli delle opere incisorie e pittoriche, vestono la sostanza iconica e segnica di un universo figurativo che rappresenta sicuramente una delle voci più autentiche dell’arte del secondo Novecento italiano, per la mirabile resa del paesaggio neorealista (si veda ad esempio ‘Sobborgo’ del 1956 dove la fitta trama incisa, come in altre opere coeve, ricorda la sensazione tattile del filo spinato), per l’intensa vicenda umana personale e collettiva, elevata a simbolo di nobile e lucida esperienza di vita.”