Io sono quello della terra: Cesco Magnolato

2022 – Chiara Polita: Così la narrazione oltrepassa la memoria per essere paradigma del perenne viaggio dell’uomo

” ‘Io sono quello della terra‘. così si è definito Cesco magnolato in una nostra chiacchierata il 15 febbraio 2022 e in quella appartenenza sta il senso di una ricerca che è fatta di vita arte e anche di parole autentiche. Una tale dichiarazione d’identità è il miglior commento a una sua acquaforte del 1955 che rappresenta un autoritratto. Il protagonista punta come albero dalla terra che lo avvolge e costituisce già il programma della sua opera: una mano possente che regge lo strumento di lavoro dell’artista, il corpo bianco che, a parte il segno netto che lo delimita, e assonanza con la luce per retrostante punto Dalì si staglia un volto Bruno, segnato come un tronco ben piantato, quasi intrico di sottili filamenti vegetali, occhi intensi e determinati che ci guardano, la presenza e il fare dell’uomo evocato dalle case che incorniciano la figura i lati. Mani, occhi, corpo, terra.

Nell’ambito degli eventi del Centenario del congresso regionale Veneto delle Bonifiche che si svolse a San Dona di Piave nel 1922 e che rappresenta una pietra miliare della storia della Bonifica Nazionale, i Musei Civici Sandonatesi promuovono una mostra dedicata al maestro Magnolato, la cui produzione ha da sempre trovato fondamento nel territorio per tradursi in una dimensione di respiro internazionale. Nella sua opera infatti la terra supera la dimensione locale e nostalgica per assumere un valore universale che ha a che fare con l’essere umani, con la fatica, la meraviglia, l’inquieta ricerca del vivere. La terra si fa colore, segno, materia, ma è innanzitutto concetto avvolgente, quasi totalizzante che, oltre a inglobare i quattro elementi, sa essere sintesi di un’esistenza: è radici fisiche di un territorio, è storia, è acqua e cieli, è vento, è natura nella sua anima e nelle sue presenze concrete, è lavoro dell’uomo ed è l’uomo stesso che, come lei, si muove, cambia, si trasforma. È inevitabile ripensare a Commisso, al suo vivere di paesaggio che lo penetra attraverso gli occhi, incrementandone la forza e rendendolo fonte del suo sangue. È proprio l’uomo che cresce in stretta relazione come il paesaggio ne diventa lo specchio, come lo scrittore esplicita in Veneto felice. Anche in Magnolato il rapporto con la terra determina l’origine del suo sangue attraverso la straordinaria forza del segno nell’opera grafica e pittorica, diventa intensità cromatica che si declina nei ‘rossi’ incendi dei cieli e delle presenze, nelle esplosioni di energia, nella vitalità dei volti, dei corpi, della natura. Sono i gialli dei campi del Basso Piave, dei girasoli tanto amati dall’artista, sono il fuoco dei tramonti sugli orizzonti di bonifica che azzannano il paesaggio. Niente è fotografia di un istante ma tutto è incessante movimento, accentuato dai caratterizzanti tagli obliqui della raffigurazione.

Così per la presenza umana. L’uomo è riflesso del paesaggio e lui stesso si fa paesaggio da esplorare. Se Infatti da un lato, in pittura, le figure si fondono con i colori della terra, dell’acqua e dell’orizzonte in un unico impasto sotteso a una costruzione sempre precisa, dall’altro nelle incisioni esse si staccano con la stessa forza di zolle scure e  squadrate, come nel caso di Rastrellatori (1954), La strada (1954) o tornano a essere fusione con ciò che li circonda (Ladro di girasoli, 1962). Alcuni elementi sono costanti: occhi pieni o vuoti che cercano, anche sotto cappelli ‘di vetro’, mani grandi, robuste e ben individuate, testimoni dell’agire, così come i corpi. Le bocche sono spesso aperte quale ulteriore racconto. Cesco Magnolato sa che le parole sono importanti e le usa con la stessa forza del suo segno grafico. Incide anche quando parla ed è un poeta, di quelli aspri e sinceri che si sporcano con la vita tanto quanto sanno affondare le mani, gli occhi e il cuore nella terra. Così le sue figure paiono dirci che siamo anche ciò che facciamo, ciò che diciamo. Sembrano titani i suoi contadini che spesso portano tra le mani e le braccia il frutto della loro fatica, del loro lavoro. Sono frammenti di un’ epopea, quella della bonifica, delle partenze e dei ritorni dai campi che si traducono in ‘esodi’, assumendo un significato emblematico che colloca i corpi al di fuori del tempo e dello spazio. Così la narrazione oltrepassa la memoria per essere paradigma del perenne viaggio dell’uomo, alla ricerca di sé e di un suo posto nel mondo.

Tra le braccia o in mano quelle presenze stringono anche girasoli, quasi a ricordarci che l’essere umano sa portare bellezza e che senza di questa non può stare. Ed è una bellezza che ancora una volta si conquista con fatica: va cercata, coltivata, come i girasoli. È stato lo stesso Magnolato, raffinato cultore di poesia e letteratura, a illuminarmi richiamando alla memoria ‘Portami il girasole’ (Ossi di seppia) di Montale. Poesia intensa che evoca terre, cieli, gialli e azzurri, flussi di tinte e musica, ma anche trasparenze, essenze e, soprattutto, luce. Rileggendo quei versi capisco quanto il girasole rappresenti, insieme alla terra, una chiave di lettura suggestiva dell’opera di Cesco Magnolato. Il girasole ‘impazzito di luce’ diventa appunto simbolo della luce della natura, dell’anima: è l’uomo, è i tramonti di questa terra, è l’oro dei campi, è il calore del sole, è l’energia vitale stessa, è l’essenziale  ‘invisibile agli occhi’ che la Volpe ricorda al Piccolo Principe.

Non sono i girasoli di Van Gogh‘ mi ha detto un giorno l’artista, ‘I miei sono l’anima dei girasoli‘. E proprio questa ricerca dell’essenza della verità come continuo e inquieto esplorare oltre la materia e attraverso di essa, e ciò che marca la relazione di Magnolato con il paesaggio. Lì concretezza, memoria, amore, appartenenza, movimento, lavoro, uomo, terra, acqua, cielo e aria, presente e futuro appartengono alla stessa metafora del vivere. Per questo scavalcano gli anni e i luoghi per essere sempre attuali. Le figure umane condividono col paesaggio lo stesso codice di segni e colori fra realtà e astrazione, ma altrettanto fa la natura: sono respiri di orizzonti quali vibrazioni di ritmi vivaci, sono cartocci di pannocchie che si fanno nuvole e vento nei cieli di bonifica e diventano evocazione di ‘anime vegetali’ o del sacro. Sono cartocci che costruiscono i cappelli dei contadini o che hanno quasi il palpito di farfalle come nell’opera La mia terra (2002). Sono girasoli all’orizzonte che costruiscono autonomi paesaggi, sono gelsi che nell’opera grafica assumono un eleganza orientale.

Io sono quello della terra‘. Così Cesco Magnolato dichiara il suo amore alle nostre terre di bonifica, ma innanzitutto all’arte e alla vita stessa, fatta di radici e di futuro, di sogni e materia, dell’instancabile voglia di cercare e di andare avanti, senza temere la fatica.”