2022 – Sara Campaner: “Tutto nasce dagli incontri”
“Tutto nasce dagli incontri“, così Magnolato, in una narrazione lucida e precisa, fatta di nomi, date e luoghi, mi racconta chi, da sempre, popola il suo mondo interiore.
Volti scarnificati, bruciati dal vento o dal sole, corpi monumentali in continuo movimento, tra andate e ritorni, povera gente, afflitta dal dolore della perdita, dall’abbandono, in un paesaggio che è esso stesso dramma.
Tutto si fa memoria, in una osmosi continua tra passato e presente.
Incontro è quello con Angelo, operaio della segheria Munari di San Donà di Piave: frequentava la trattoria di famiglia quando Cesco, ancora bambino, disegnava in cucina. “Aveva mani grosse e robuste, sembravano sculture, indossava una mantellina nera e amava l’arte: conosceva Michelangelo e Raffaello. Lavorando in segheria mi portava le tavolette di compensato su cui ho iniziato a disegnare. Sono legato da un affetto profondo ad Angelo, era un uomo semplice, dotato di una grande sensibilità. Gli ho dedicato alcuni quadri, ma non ha mai saputo di essere lui il protagonista delle mie tele“, così il maestro ricorda quell’uomo, interprete inconsapevole di un colloquio intimo che si fa universale.
La “Trattoria alla Pergola”, posta in quella zona di mezzo, tra la rigogliosa campagna sandonatese e il centro cittadino, la periferia appunto, rappresenta un singolare luogo d’incontri. Ogni giorno il giovane Cesco entra in quel microcosmo fatto di umanità umile, segnata dalla fatica, dal lavoro, dal sacrificio, dalla sofferenza. Operai, ferrovieri, braccianti. Li osserva in silenzio, li scruta, entra in empatia con loro. Si riconosce in questi uomini, umili ma di carattere, poveri ma dignitosi, gente onesta e genuina. Sono figure che entrano a far parte del suo immaginario, per sempre. Occhi severi, quasi allucinati, pennellate di pura luce in contrasto con i volti scuri, che interrogano l’interlocutore, che provocano, che scuotono le coscienze. Gridano la precarietà della condizione umana e con essa quella di ogni cosa vivente.
Ancor più singolare è l’immagine di quel girasole che, nelle piatte campagne del Basso Piave appare in ampie distese, ma che in Magnolato ha una presenza quasi ossessiva. Talvolta in sequenze prostrate e disuguali, altre volte isolato e ritto diventa metafora di uno stesso destino che accomuna uomo e natura.
Avvolti nel giallo oro dell’estate o nei marroni dell’autunno, i girasoli si trasformano: e sono occhi, e sono corpi rubati, e sono segni e forme che si agitano in un caos, reso calmo ed in pieno equilibrio, dalla sapiente mano del pittore, come accade nell’opera Girasoli (1990).
Magnolato sa coniugare con grande sensibilità, uomo e natura, tema sociale e visione introspettiva, tradizione e avanguardia, ricerca e intuizione, fondendoli in un componimento dall’enfasi e dalle scelte molto personali. A sua volta è incontro anche quello con uomini e donne che sono costretti a lasciare la terra promessa, la campagna del Basso Piave, terra voluta ed evoluta, strappata alle acque e resa fertile.
Magnolato vive alla fine degli anni ’50 il dramma dello spopolamento delle terre basse. Ed è questo abbandono che provoca in lui una profonda lacerazione, un dolore. La meccanizzazione del lavoro agricolo svuota la campagna e trasforma radicalmente il paesaggio, prima carico di colori e di umanità, in uno scenario quasi spettrale.
È la narrazione degli esodi. Donne e uomini dei quali non si conosce il passato e poco importa il futuro. Sono i volti, le braccia, le mani, gli abbracci e le deposizioni laiche dell’esodo biblico di un’attualità dirompente, che l’artista raffigura con sapienza formale e forza emotiva.
Tagli diagonali, sovrapposizioni di piani, apparenti incongruenze dimensionali, suggeriscono la dolorosa fuga interiore di questi esuli, dai volti sconvolti come in Esodo (1997) in cui la drammaticità e la tensione è sottolineata dai rossi, dai neri, dai gialli dilaganti e dinamici, che invadono la tela con un’abilità non comune nel far danzare il segno pittorico e grafico secondo un ritmo contemporaneo, denso di energia, di tensione, di capacità interpretativa.
La sua è un’umanità senza meta, sono corpi in lotta perenne contro un vento impetuoso. È il vento dell’urlo che, se da un lato trascina l’uomo deformandone le sembianze, dall’altro diventa carezza sul volto scarnificato dalla sofferenza. E’ un gesto ed una risposta a quegli occhi che chiedono aiuto e che raccontano, in un assordante silenzio, la profonda disperazione interiore. Il retroterra iconico, che sostiene le sue immagini strazianti, coinvolgenti, dirette, spasmodiche, consente all’osservatore quel residuo di distanza emotiva, per riflettere sull’umanità ferita nel profondo, senza lasciarsi frantumare dall’emozione.
La pittura di Magnolato ha un impatto narrativo immediato, non ci sono schermate simboliche che chiedono impegnativi scavi interpretativi. Sono immagini che agiscono in profondità, nell’intimo dell’essere. La sofferenza, quella vera, quella degli ultimi che hanno visto l’orrore in faccia, non chiede di essere rappresentata come fosse un’illustrazione. Ma di essere condivisa. È il cantore di un’umanità in perenne andare, alla ricerca di pace e serenità, di luoghi perduti, dopo aver attraversato tragedie, conosciuto l’esilio e la solitudine, l’incontro e la condivisione del dolore.
Dipingere per Magnolato è da sempre un’intima necessità, è urgenza prima verso se stesso e solo dopo condivisione con l’esterno.
Il vero significato di intima necessità lo comprendo però, quando, tra un ricordo e l’altro, commuovendosi afferma che “la mia è una disposizione naturale verso la sofferenza dell’uomo, la porto dentro di me. E’ farsi carico del dolore del prossimo, chiunque esso sia“.
Una virtù e un’etica la compassione che Cesco prova per l’uomo, un modo di essere autentico che lo aiuta ad indagare tra le pieghe dell’anima, cercando la verità.
È un lungo percorso indipendente il suo, è una storia personale che diviene attraverso le sue opere universale, raccontata mediante la forza narratrice del segno e del colore. Le immagini della memoria prendono forma sulla tela con segni precisi, forti, che si sovrappongono, dove l’alternanza vigorosa del colore, si fonde in una dimensione vitale che coinvolge chi guarda. Una pittura, la sua, che a tratti diventa visionaria, dove la realtà si scompone e sconfina nel sogno, dove l’uomo, attraverso un processo di smaterializzazione, da essere umano diventa esso stesso elemento vegetale.
E sembra, almeno per un attimo, che si plachi quel conflitto ancestrale tra uomo e natura, in una autenticità pittorica e di pensiero, che rimarrà il suo maggior contributo alla cultura del nostro tempo.