Cesco Magnolato: la pittura che parla

2001 – Paolo Rizzi racconta la pittura dell’artista veneziano:

Foglie? … no!, lingue di fuoco

L’ultimo quadro che Cesco Magnolato mi presenta, nel suo atelier di San Donà, rappresenta un uomo (o almeno il suo volto si distingue sul fondo) sommerso da una folata di foglie rossastre. Impressionante. Le foglie, agitate dal vento, sembrano lingue di fuoco. E’ quasi uno scoppio, l’esplosione di una vitalità naturale. “Questa è la mia terra, il mio mondo”, osserva a bassa voce l’artista. Mi avvicino. Forse le foglie sono cartocci secchi di pannocchie; ma quel loro scompigliarsi nell’aria ha un tono eroico. Continua Magnolato: “Racconto le mie emozioni, le mie sensazioni”.

La pittura? Respira, trema, ribolle come il sangue, scatta nervosamente, poi magari si placa, ha pause di abbandono, quindi torna alle convulsioni, si agita, ha dei brividi paurosi. Certo: è una pittura viva. La sento come un organismo che si muove davanti a me. Quell’uomo, che intravvedo, appare sommerso dalla forza primordiale della natura; eppure lo sento, nella sua fierezza, resistere, opporsi alle avversità.

Cesco Magnolato pittore italiano del XX e XXI secolo

E’ strano, è sintomatico: quel che dipinge Magnolato non sono cose. O meglio: le cose, da cui egli parte, si traducono in simbologie, in metafore. L’interazione tra uomo e natura è impressionante. Vediamo come si realizzi il “panta rei” greco: tutto corre, corre affannosamente (ma anche lucidamente) verso un destino comune. La forza della natura è impregnata di forza psichica. Ecco perché quelle foglie mosse dal vento (ma sono poi foglie?) diventano elementi di una vita organica che avvolge l’uomo e il suo ambiente; l’uomo e i suoi ricordi; l’uomo e i lacerti dei suoi pensieri che volano via nel caos esistenziale.

Un passo indietro: gli anni ’40

Voglio capire da dove nasce questa metamorfosi organica che tanto mi avvince. Voglio tornare alle origini della pittura di Magnolato. Dove sono i suoi quadri giovanili? Lui appare sorpreso dalla mia domanda. Fruga negli scaffali, un po’ perplesso. Mi tira fuori uno, due, dieci, venti quadri che recano date lontane: gli anni Quaranta. Mi vien subito alla mente la guerra: un periodo tragico per la vita sua e per la mia, che riporta a galla memorie cupe.

Magnolato si siede su uno sgabello e racconta. Non ha mai voluto riandare a tempi così lontani: o almeno non l’ha mai fatto. E’ ora di farlo. E’ nato nel 1926 ed ha avuto sempre (non è un luogo comune) una predisposizione per il disegno. “La pittura non nasce – dice – c’è già”. Fin da bambino ha sempre pensato che la sua strada sarebbe stata quella del pittore. Sotto i temi a scuola apparivano i suoi disegni che illustravano l’argomento e attirarono subito, per le loro qualità grafico-espressive, l’attenzione della maestra. Conseguenza: la famiglia, assecondandolo, lo mandò a studiare a Venezia al Liceo artistico.

E’ il 1942. Quel ragazzino timido e scontroso, così bravo a disegnare, si trova in un ambiente che, in verità, non è mai stato facile. Ma in breve tempo si inserisce e , tra gli altri ottimi insegnanti, incontra Giovanni Maioli, professore di figura disegnata che, con le sue lezioni di architettura dell’immagine, gli darà quelle basi di equilibrio compositivo che ancora oggi egli tiene presente. Come compagni di classe ricorda: Tancredi, G. Di Pace, L. Mirisola , R. Sent e N. De Luigi. All’Accademia si iscrive al corso di pittura del M° Guido Cadorin, dove in verità le regole di studio erano improntate ad un rigore accademico, e di questo Magnolato non era molto soddisfatto. Egli amava il movimento, l’azione. Cercava di ritrarre le cose nella loro vitalità intrinseca. Non era un contemplativo, né lo attiravano le raffinatezze tecniche nelle quali la Scuola era maestra. Aveva scelto questa cattedra con la speranza di poter dipingere in libertà ciò che sentiva e, per sua fortuna, lo lasciavano fare.

La libertà, per Magnolato, significava non i temi delle nature morte o di modelli statici ma dipingere l’ambiente, gli amici, il sociale, i compagni di scuola, magari i ragazzi che trovava in Campo della Carità, davanti all’ingresso dell’Accademia. Quei quadri (o almeno alcuni, quelli rimasti) sono ora davanti ai miei occhi.

Dopo alcune prove scolastiche supine, alla maniera “ferma” di Cadorin, ecco scattare la molla. Siamo nel 1948. C’è un ritratto dell’amico Giorgio Silvestri: aria risentita, bavero rialzato, pittura irsuta, agitata. Poi un ritratto di persona anziana dallo sguardo mesto, dipinta con verismo alla Novati (“Ma – osserva Magnolato – io Novati allora manco lo conoscevo”). Esce dagli scaffali una sorta di “testa di carattere” settecentesca, alla Magnasco, tutta arruffata ed eccitata. E ancora, del 1949: un ragazzo dal berretto scuro, l’espressione stralunata, un po’ sghembo; una donna (“E’ mia madre”, dice l’artista) che dorme con la testa reclinata e le mani rosse dipinte con foga; un ritratto più compassato e sciolto, di Litiana Zambon, compagna di studi. Quindi, forse nel 1950, un ragazzo nudo dai toni bruni e dalla pennellata nervosa, più un paio di paesaggi lavorati a scatti, con piglio nervoso…

Mi chiedo: da dove potevano venire, stilisticamente, questi dipinti? Non trovo addentellati, matrici precise, riferimenti. Niente a che fare non solo con la lezione dei maestri d’Accademia, ma nemmeno con la pittura allora di moda.

Il punto della situazione: 1948-1950

Facciamo un po’ il punto della situazione. Allora, in quegli anni tra il 1948 e il 1950, Venezia era forse il centro più attivo artisticamente della Penisola. Vi si scontravano almeno tre concezioni dell’arte. Da una parte c’era l’insegnamento “colto” dei maestri d’Accademia: Cadorin, Saetti, Cesetti, più quel Guidi che era stato cacciato sì da Venezia nel 1934 ma era sempre lì, polo d’attrazione di molti giovani. I maestri indicavano una via “sapiente” della pittura, magari correlata al verbo neo-quattrocentesco o all’antica decorazione “a fresco”. C’era poi la maniera, più sbarazzina, dei cosiddetti lagunari: cioè i neo-impressionisti alla Seibezzi, Mori, Dalla Zorza, che propugnavano le liquidità atmosferiche della tradizione lagunare. Infine il terzo gruppo, il più avanzato linguisticamente: quello dei Vedova, dei Pizzinato, dei De Luigi, dei Santomaso, aperto alle nuove mode europee, ed in particolare al neo-cubismo.

Magnolato si trovava immerso in questo periodo, curioso di tutto; seguiva le Biennali e le grandi mostre, sentiva il fermento che girava intorno. A Venezia confluivano, per varie ragioni, i Morandi e i Carrà, ma anche i Birolli e i Guttuso. Si formava il “Fronte nuovo delle arti”, con l’autorità critica di Giuseppe Marchiori.

Una volta diplomatosi all’Accademia, accettò un’offerta di lavoro per qualche verso inconsueta, ma che comunque gli permetteva di approfondire, almeno tecnicamente, la sua preparazione. Gualtiero Scerman, direttore di una vetreria muranese, cercava un ragazzo che sapesse disegnare. Nessuno meglio di lui c’era all’Accademia sul piano del puro disegno. Per sei mesi Magnolato lavorò a progettare vasi, lampadari, anfore, conciliando l’antico al moderno. Ma il suo sguardo ideale era rivolto alla sua terra, al mondo che lo aveva covato fin da ragazzo: all’ambiente di San Donà, con le memorie della guerra e del dopoguerra che, piano piano, lievitavano dal di dentro. Era (è chiaro) una temperie realista-simbolista che emergeva.

Poi una telefonata imprevista. Era Giovanni Giuliani, il vecchio maestro che all’Accademia gli aveva insegnato le tecniche calcografiche. “Puoi venire qui ad insegnare, al posto di Virgilio Tramontin? Lo stipendio non è granchè, ma…”. Giuliani non era soltanto un sapiente incisore, ma un uomo buono e giusto. Così Magnolato tornò, dopo meno di due anni, nelle aule dell’Accademia: non più come allievo, ma come insegnante: assistente appunto di Giuliani. Era il 1952. Nacque allora l’interesse di approfondire tutte le tecniche incisorie, che lo avrebbero portato ben presto alla fama.

Colpo di scena: la Biennale!

Naturalmente la vice-cattedra all’Accademia consente a Magnolato partecipazioni a mostre e a concorsi. E’ l’inizio vero e proprio della carriera. Nel 1953 egli è tra i vincitori dell’allora prestigioso “Premio Burano”, in un’edizione in verità contrastata e dal verdetto ambiguo, in cui si affrontavano tradizionalisti e innovatori. Poi, l’anno dopo, ecco un altro premio al concorso “Paradiso” (questa volta per il disegno). E’ il 1954: la Biennale è alle porte. Magnolato manda quattro incisioni (sotto giuria). Alla mattina dell’inaugurazione è a prendere il caffè accanto all’Accademia. Apre “Il Gazzettino” e legge i nomi dei vincitori : nell’ordine Max Ernst, Jean Arp, Joan Mirò, Giuseppe Santomaso, Pericle Fazzini… Un colpo al cuore! Ecco per l’incisione il premio, ex aequo, a Magnolato e Manaresi.

“Te l’aspettavi, questo premio?” gli chiedo ora. “Manco per sogno. Ero lontano le mille miglia. A dire il vero mi sono sempre chiesto, successivamente: Perché io e non altri incisori, invitati e considerati maestri? Per me era già un successo essere stato accettato sotto giuria. Non conoscevo nessuno della commissione, proprio nessuno”. Per la storia la commissione era formata da nomi illustri come Casorati, Marchiori, Mazzacurati e Pallucchini, più Gentilini, Consolazione e Leonardi. Evidentemente le qualità del giovane schivo e appartato incisore sandonatese ebbero il sopravvento sui cosiddetti maestri.

Successe quel che successe. Magnolato venne considerato lui stesso un maestro, per quanto avesse allora appena ventisett’anni. Arrivarono inviti su inviti. Il curriculum si ingrossò nel giro di poco tempo. Oggi Magnolato è, tra gli artisti viventi, uno dei più premiati. Ma attenzione: il premio alla Biennale era per l’incisione… E la pittura?

La pittura in quegli anni Cinquanta – lo si può capire – fu un po’ trascurata. Non tanto perché Magnolato avesse cessato di dipingere, ma per il fatto che tutti gli chiedevano incisioni. Fu anche per questo motivo, credo, che egli potè dedicarsi con tranquillità a dipingere, senza alcun assillo. Ora egli può ben commentare: “L’incisione, in fondo, l’ho trovata per strada. Io ero allora, e resto ancor oggi, soprattutto pittore”.

Il momento dei ricordi

E’ vero, come dice lui stesso: la pittura è il momento dei ricordi. Essa si infiltra lentamente nel passato, lo rivanga, lo interpreta, fatalmente lo travisa, o almeno lo carica di immaginazione, di nostalgia, di spinte psichiche, di organiche pulsioni. Ma quali ricordi? Sempre più col tempo, dagli anni Sessanta, i ricordi si coagulano verso una condizione esistenziale che è quella della guerra e soprattutto dell’immediato dopoguerra. Magnolato era poco più che un ragazzo. Assistette ad eventi drammatici nella sua San Donà: i rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti, i partigiani che cercavano di reagire, la paura che s’ insinuava tra la gente comune, le fucilazioni di massa, l’incubo di una guerra civile che non finiva.

Racconta Magnolato: “Si scappava per i rastrellamenti. Si restava fuori casa anche per tutta la notte con il terrore di essere presi (la pena era la fucilazione). Ricordo alcuni amici, come quelli che facevano parte del gruppo dei “Tredici Martiri”, fucilati sulle macerie di Cà Giustinian il 28 luglio 1944 a Venezia. Dieci di questi erano sandonatesi e tre (F. Biancotto, V. Nardean e G. Tamai) abitavano nella mia stessa strada, via Ereditari. E’ stato terribile per me vedere gente che conoscevo sfilare incatenata per le strade di Venezia qualche giorno prima. Tutto questo mi è rimasto impresso nella mente”.

In realtà Magnolato non ha mai raccontato in pittura quegli episodi, o comunque le scene della guerriglia partigiana. La sua non è mai stata la tempra di un neo-realista. Niente a che fare con quanto hanno dipinto i Guttuso, i Pizzinato, i Sassu, gli Zigaina. Il ricordo in Magnolato diventa – lo ripetiamo – metafora. E’ una metafora che parte dalla terra. I suoi elementi costitutivi, almeno all’inizio, cioè nella fase di raccolta delle memorie, sono le pannocchie sparse sui campi, i gelsi, gli alberi contorti, i covoni, le viti, i girasoli seccati, le ceppaie, i fossati: cioè l’ambiente della campagna sandonatese. Tutto, nella pittura, diventa fantasma.

Antropomorfismo? E sia. Ciò che la terra produce è assimilato dall’uomo, si compenetra con esso, vi si immedesima, in un certo senso lo accompagna e, magari, lo sostituisce. La vegetazione che Magnolato descrive assume significati simbolici che, via via con gli anni, diventano sempre più evidenti. Quei girasoli appassiti, scuri, quasi neri, raccolti sui campi d’inverno, si ergono come figure spettrali. Il ricordo diventa visionario. Si potrebbe avvertire un influsso dal mondo romantico nordico, oltre che dall’Espressionismo tedesco, e magari da Kubin o da Munch. Ma in realtà si tratta di ricordi allo stato incandescente, che rifiutano di per sé ogni riferimento storico e stilistico.

I ricordi si accumulano, nella pittura di Magnolato, come spine. Pungono, fanno male. Hanno una forza interiore che rifiuta ogni edonismo d’accatto. Conservano, al loro interno, una profonda “verità biologica”.

Quando il sangue ribolle

E’ chiaro, a questo punto, che la storia di Magnolato deve essere riferita all’interno, non all’esterno. Gli influssi stilistici si attenuano, sono quasi inesistenti. Emerge invece la forza organica dell’individuo, quindi la sua istintuale violenza, la ribellione agli schemi, l’autenticità dell’essere. Questo importa. La pittura diventa autobiografia. Tanto che, soprattutto a partire dagli anni Settanta, si può parlare di continue variazioni sul tema: che è, appunto, il tema dell’uomo che rivive se stesso, le sue emozioni, i suoi sentimenti.

L’uomo. Eccolo apparire, come un fantasma, tra le ceppaie e i campi di granoturco. Ha le occhiaie vuote, come guardasse “al di là”. Viene dalla povera gente: spesso è un profugo, un emigrante, un diseredato, un superstite. Il suo passato è quello di un dopoguerra categoriale, con la fatica che si porta sulle spalle. Ma il suo incedere ha una fierezza, quasi un orgoglio. Egli ha vissuto momenti tragici e sa di portare con sé la speranza del domani. Lo vediamo sbucar fuori dalla natura, come un elemento stesso della natura: anzi, tutto quello che lo circonda (compresi i cartocci delle pannocchie e i rami contorti dei vigneti) gli assomiglia. Non è solo: fa parte di un mondo cui egli sente di partecipare intimamente.

Sta qui la visionarietà di Magnolato: quel suo trasporre la memoria in fantasma. Su questa corda – vale ricordarlo – altri grandi artisti si sono cimentati, soprattutto nell’Ottocento: da Fussli a Munch, da Kubin a Van Gogh, fino agli Espressionisti come Kirchner e Nolde. Ma in Magnolato è assente quel certo fatalismo passivo, talora estenuato e incupito. Semmai il suo “stravedere” nasce dal ribollire del sangue, dalla prepotenza del substrato psichico-organico. Nella pittura, quindi, non compare “un uomo”: ma “l’uomo”. Compare con tutta la sua forza ma anche con tutta la sua debolezza: con le frustrazioni e le speranze, col desiderio di riscatto e la voglia di amare, con le sue paure esistenziali e la sua ribellione.

La simbiosi tra uomo e natura è proprio il connotato primo della pittura di Magnolato. Non c’è più la distinzione classico-rinascimentale: c’è, semmai, un’aderenza piena alle scoperte più recenti della scienza. Come dire: il DNA scorre dal sangue alla pittura. E noi – sia pure indistintamente – lo percepiamo.

La pittura che parla

Troppo spesso – oggi più ancora che ieri – la pittura è intesa come mero esercizio estetico: spesso come sperimentazione linguistica. E’ chiaro che tutto quel che è successo nei decenni scorsi – dalla Pop Art all’Arte concettuale, dall’Optical alla Minimal, fino alla Videoarte e alla Computerart – risponde ad una necessità di documentazione storica. I buchi di Fontana sono l’estremo tentativo di esplorare (illusoriamente) il cosmo. Ma anch’essi fanno parte del passato, come gli happening e le installazioni di cui fa sfoggio la Post-Avanguardia. La nostra cultura è alla ricerca disperata di nuovi “valori” che si sostituiscano ai vecchi “valori” ripudiati fin dai tempi di Dada e del Surrealismo. Ma quali nuovi “valori”?

Magnolato dice, sia pur con parole sommesse : “I miei quadri nascono dal mio sangue. Fanno parte del mio corpo”. Ogni tanto, alla sera, egli tira fuori un suo vecchio dipinto e vi si immerge, come a specchiarsi in esso. “Lo trovo buono soltanto quando è vero”, osserva. In realtà tutto, in lui, diventa autobiografia: depurata dal contingente, tesa all’universale. Se la pittura parla, come deve parlare, le sue parole devono nascere dal di dentro, non essere scimmiottamenti o adeguamenti. E’ questa la ragione per cui la critica si è sforzata di trovare per Magnolato dei “padri putativi”: e non vi è riuscita.

La pittura nasce autonoma, lontana da ogni influsso stilistico. Definirla espressionistica o simbolistica è una riduzione: sono termini che si avvicinano al nocciolo, ma non vanno oltre. Che significano altrimenti quei tagli secchi, quei fendenti, quei colpi improvvisi che scuotono la pittura? Che significano quelle esondazioni cromatiche che pervadono l’intero campo della visione? Che significano quelle fughe verso l’esterno che portano “oltre” lo sguardo? La dinamica non è soltanto fisica: è psichica. Ogni quadro è un momento organico tutto particolare, diverso dagli altri. Gli scatti e gli scoppi, i continui strappi, le tensioni persino lancinanti della forma non sono che l’impronta di un organismo che vive, magari spasmodicamente, la sua avventura nel mondo.

E’ difficile, se non impossibile, storicizzare tutto ciò. Davanti ai quadri di Magnolato ci troviamo come (si scusi l’ardito paragone) di fronte alla Crocefissione dell’altare di Colmar. Quelle piaghe purulente che ha dipinto Grunewald quasi cinque secoli fa restano come fuori del loro tempo: sono segni di un dolore appunto universale. Dietro c’è indubbiamente la grande lezione di Durer; ma è come dire – lo ripetiamo – che dietro Magnolato ci sia l’eco dell’Espressionismo tedesco o, magari, di un certo Informale di gesto. Ci sono, certo: ma vengono superati dal quoziente organico di “verità” che l’artista ci ha messo dentro: appunto come parte del proprio sangue.

Ma come può accadere?

E’ comprensibile che ci si chieda – come un po’ tutti si chiedono – quale sia il segreto di questa prepotente autenticità della pittura di Magnolato. Un segreto, almeno dal punto di vista tecnico, c’è. Altrimenti non reggerebbe una pittura basata soltanto sull’istinto, cioè sul sangue. Il fatto è che tutto quel che appare spontaneamente è programmato dal di dentro. Intendiamo: programmato come sviluppo strumentale di una conoscenza tecnica della pittura che risale all’esercizio specifico.

L’esempio di altre arti può servire a chiarire il concetto. Nella musica conta, certo, l’invenzione melodica; ma conta anche la capacità di tradurla perfettamente sul pentagramma. Quanti potenziali Mozart esistono sulla terra! Il fatto è che, in mancanza della tecnica espressiva, essi restano come sordi. Chi ammira (e chi non la ammira?) la staordinaria abilità calcografica di Magnolato forse non si rende conto che altrettanta è l’abilità che sottende alla pittura, anche se quest’ultima sembra più estemporanea, appunto più istintuale. Basterebbe far notare la qualità delle velature che rendono omogenee le strisciate di colore, le colpeggiature brutali, le schiumate della pittura. Oppure: basterebbe, magari rovesciando il quadro, cioè prescindendo dalla tematica, osservare la qualità strutturale, cioè la tensione delle masse, la congruenza degli effetti, l’armonia (magari timbrica) dei colori. Il quadro diventa un organismo congegnato alla perfezione. Come dire: l’apparente caos si trasforma in ordine; e l’ordine obbedisce ad un disegno che è lo stesso che regola la natura. La tecnica si pone – in altre parole – al servizio dell’espressione.

Ancora: si guardi ad ogni particolare del tessuto pittorico. Magari si focalizzi un centimetro quadrato. Il ductus della pittura risale sempre e comunque a quello che diremmo lo stesso stile. E poi: le diagonali. Dall’inizio degli anni Settanta Magnolato lavora per tagli obliqui, che non sono – si badi – fine a se stessi, ma obbediscono ad un certo tipo di espressività. Vediamo, in certi quadri, come dalla testa dell’uomo nascano dei segni che puntano verso l’esterno, come fossero pensieri che fuggono. L’obliquo, come spiega la psicologia della forma, indica una rottura dello schema precostituito: quindi accentua il dato espressivo. “Io cerco di dipingere disegnando”, dice l’artista. Il che significa compattezza della forma, anche quando i suoi frammenti si disgregano nello spazio. Potremmo arrivare ad una similitudine audace: quella dei protoni e dei neutroni che girano vorticosamente ma obbediscono ad un moto ben precostituito.

Una conclusione, una speranza

Lo si può dire senza tema di smentite: Magnolato è tutt’altro che un manierista. Ogni suo quadro è un’invenzione, un mondo a sé, anche se tutti assieme formano una sorta di lungo racconto dai filamenti memorativi. Come egli sappia “stravedere”, cioè trasformare lo sguardo da fisico in psichico, è altrettanto evidente. Del pari il suo antropomorfismo deriva da un’introspezione profonda nel solco della natura.

Questi tre presupposti basterebbero per indicare la qualità di un artista. S’aggiunge – lo ripetiamo – una congruenza strutturale ben marcata. Nessuna ripetizione; nessun artificio; nessuna sofisticazione. E s’aggiunge anche quella capacità di Magnolato di tradurre ogni forma, ogni elemento, ogni figura in metafora fuori dal tempo. I ricordi, appunto, si sublimano: finiscono per rappresentare una sorta di sofferenza universale.

Basta questo per definire Magnolato un vero artista? Crediamo di sì. In un’epoca come la nostra di contorcimenti nevrotici e di spettacolarizzazione provocatoria, trovarsi di fronte ad un pittore di tale forza fisica e psichica è raro. La sua pittura è dentro l’attualità come poche, proprio perché si svincola da ogni sudditanza alla moda e punta a quella conciliazione tra uomo e natura che è il presupposto etico di una nuova concezione del mondo.

Siamo partiti, in questa disamina, da una folata di vento che sconvolge le foglie rossastre dell’autunno. Concludiamo, emblematicamente, con un altro quadro recente di Magnolato.

Pittore italiano Cesco Magnolato espressionista a suo modo

E’ una “Primavera”. I toni sono chiari e luminosi: si scorge l’azzurro del cielo al di là del verde della vegetazione. Tutto è sereno. E’ come se la tempesta dell’animo si sia placata: la brezza ora è fresca e carezzevole. E’ un quadro che induce alla speranza. Forse soltanto chi ha tanto sofferto – e meditato sul significato della sofferenza – può darci un tale messaggio di fiducia nella vita.

1994

Cesco Magnolato, bruciando i suoi ricordi, vuole arrivare alla loro essenza, al nocciolo esistenziale, quindi ad una sorta di immanenza atemporale. […]

Mi rendo conto, all’improvviso, di quanto questa pittura sia attuale: cioè viva e in un certo senso (posso dirlo?) moderna. Ne scorro rapidamente le ragioni; cerco di enumerarle. Anzitutto il rifiuto, così duro e netto, del manierismo imperante: niente sofisticazioni, niente giochi edonistici, niente sigle subdolamente ripetute. Poi lo scavo interno nella psiche: come non riconoscerlo nel procedimento pittorico di Magnolato, diverso e pur simile (per fare un paragone forse incongruo) a quello di Francis Bacon? L’arte diventa strumento di conoscenza dell’uomo nella sua primaria vitalità biologica, fatta di cromosomi che quasi si gonfiano e si ingigantiscono. Poi ancora: l’assenza di ogni mediazione stilistica. Magnolato è “uomo da musei”, cioè conoscitore profondo della storia della pittura: eppure in lui non restano tracce di ciò che ama, né Tintoretto né Kokoschka né Nolde. Autonomia; fierezza di una interna libertà di espressione.“